Ogni software ha il suo demone, ovvero un suo modo di guidarci e spingerci in una certa direzione. Abbiamo dunque escogitato un gioco hacker, da curiosi esploratori dei mondi digitali, per evocare la voce delle piattaforme, sperimentandolo con gruppi diversi, dall’università alle scuole secondarie di primo grado, da educatori e docenti a studenti delle scuole superiori; in italiano e in inglese.
Pubblicato su La Ricerca
Nel corso del 2020 un numero straordinario e sempre crescente di esseri umani ha dovuto, volente o nolente, confrontarsi con le piattaforme digitali per videolezioni, videoconferenze, videoriunioni, insegnamento a distanza, apprendimento a distanza e via dicendo. Prima di allora, Zoom era praticamente sconosciuto al grande pubblico e senz’altro agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie. Microsoft Teams aveva qualche milione di utenti nel mondo del business, non oltre cento milioni al giorno con una straordinaria penetrazione nel mercato delle università. Google Meet, che poco prima si chiamava ancora Google Hangouts, era uno dei tanti servizi di bigG, certamente fra i meno conosciuti e frequentati, sicuramente non dagli studenti. L’unico sistema molto noto prima della pandemia del Covid-19 era probabilmente Skype: acquisita da Microsoft nel 2011, ironia della sorte, è cambiata molto poco in questo periodo frenetico per i sistemi di videochiamata. Ce ne sono molti altri, meno diffusi: Cisco Webex, GoTomeeting… ma oltre a quelli basati su software chiuso e proprietario, che non si può liberamente modificare e adattare alle proprie necessità, esistono anche sistemi F/LOSS (Free/Libre Open Source Software) come Jitsi e BBB (Big Blue Button).
In rete si trovano guide di tutti i generi per usarli al meglio; valutazioni e comparazioni; accorgimenti e considerazioni su come ridurre l’affaticamento da videopresenza… ma noi di C.I.R.C.E. (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche) non abbiamo trovato quel che cercavamo, ovvero una guida che ci spiegasse come questi sistemi funzionano insieme a noi umani, in che modo ci guidano, ci attirano, ci sfiancano, ci intrigano. Sì, perché non si tratta solo di funzionalità tecniche, di caratteristiche quantificabili in termini di prestazioni da esprimere con metriche oggettive.
Per avvicinarci alla complessità di questi mondi digitali, abbiamo fatto ricorso al metodo della pedagogia hacker [1]. In estrema sintesi, si tratta di non fermarsi al primo strato, ma di andare oltre le apparenze e osservare le interazioni con uno sguardo obliquo, ispirato alle pratiche etnografiche, intenzionato a svelare la struttura materiale delle tecnologie con cui conviviamo.
Assumiamo un’attitudine hacker, cioè di persone curiose, desiderose di esplorare e comprendere il funzionamento dei sistemi con cui hanno a che fare; di imparare insieme come conviverci. Si tratta allora di osservare, comprendere e imparare a conoscere il carattere, la personalità di queste piattaforme. Di imparare ad ascoltarne la voce e…
La personalità e la voce delle piattaforme? Ma questa è follia, direte. Le macchine non parlano. I computer, al massimo, possono riprodurre della musica come viene loro ordinato, o emettere suoni di errore, segnalazione, notifica, per avvertirci di qualcosa. E quanto alle piattaforme a cui accediamo con i dispositivi, computer tablet o smartphone che siano, che sciocchezza: sono programmi informatici, righe di codice, non hanno certo un carattere loro. Sono inorganiche… inanimate?
Lasciamo da parte l’anima, e proviamo a cambiare punto di vista, a non considerarci solo esseri umani che si servono (usano e abusano) di strumenti tecnici. Questa è una visione antropocentrica della tecnica [2]: presuppone che gli strumenti siano supporti anodini delle volontà umane e che, in fondo, una piattaforma vale l’altra. «Dipende da come si usa!», sentiamo ripetere in continuazione. Vero, ma fino a un certo punto. Una simile prospettiva non è assolutamente adeguata, specialmente nel caso di tecnologie interattive complesse, basate su meccanismi di retroazione (feedback) come quelle digitali di massa, in cui a ogni click corrisponde un cambiamento nell’interfaccia che a sua volta conduce a successive «scelte» da parte dell’utente.
Sappiamo che gli esseri umani non sono tutti uguali fra loro, anzi, come ogni altro essere vivente sono tutti diversi. Perché gli esseri tecnici dovrebbero fare eccezione? Dopotutto, sono fatti di codici informatici diversi, scritti da persone diverse, programmatori sparsi in giro per il mondo che raramente si conoscono fra loro, ma spesso lavorano per la stessa azienda; sono composti in linguaggi diversi fra loro, a volte della stessa famiglia, tanto quanto l’italiano è diverso dal francese; altre volte per nulla imparentati, come il mandarino non c’entra nulla con l’arabo. Alcuni sono composti da milioni di righe di codice, altri da poche centinaia o qualche migliaio; alcuni stanno solo nel computer di un singolo programmatore, altri sono replicati su milioni di computer, server, smartphones in giro per il mondo: diversi come un essere organico unicellulare è differente da un complesso mammifero multicellulare, come una specie sull’orlo dell’estinzione si differenzia da una specie che soffre di sovrappopolazione.
Inoltre le piattaforme abitano tutte in luoghi diversi. Oltre che sui nostri monitor, quando ci connettiamo, Zoom abita nei server di Zoom, naturalmente, che stanno… be’, non è così facile dirlo. Probabilmente nei datacenter di Equinix? Forse. Più facile tirare a indovinare per Teams, visto che Microsoft possiede un sacco di datacenter; e per GMeet, che si appoggiano a quelli di Google. Per le altre, specialmente per quelle F/LOSS, l’alloggio è più vario: basta vedere i servizi Jitsi e MultiParty Meeting elencati nel portale https://iorestoacasa.work/ [3], sparsi per tutta la penisola italiana. Impossibile che tutte queste differenze non si esprimano in modalità, voci, caratteri altrettanto diversi fra loro!
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[1]. Un’intervista introduttiva sul tema della pedagogia hacker: https://circex.org/it/news/pedagogia-hacker-intervista Un riassunto di quello che abbiamo imparato nella distanza digitale: https://www.pedagogiahiphop.org/2021/04/06/organic-fad-suggerimenti-per-una-formazione-a-distanza-critica-ecologica-e-libera/.
[2]. Il tema dell’alienazione tecnica dal punto di vista fisiologico, psicologico e sociologico è stato magistralmente trattato da Gilbert Simondon, Sulla tecnica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017; sulle implicazioni educative, si vedano in particolare gli attualissimi articoli Posizione dell’avviamento tecnico in una formazione umana completa (1953) e Prolegomeni ad una revisione dell’insegnamento (1954), pp. 165-208.
[3]. L’offerta di piattaforme per videolezioni F/LOSS è sempre più varia e articolata; a differenza dei sistemi chiusi e proprietari, è sempre possibile installarle anche su propri server. Ogni scuola, istituto, università potrebbe gestire le proprie risorse, e federarsi con altri istituti per condividerle. Per una panoramica più ampia sulle Reti digitali si veda C. Milani, P. Antoniadis, Reti bio-organiche, Mondo Digitale, marzo 2021 http://mondodigitale.aicanet.net/2021-1/Articoli/03_MD90_Reti_bio-organiche.pdf