Diario semiserio di un prof di liceo ai tempi del COVID

di Alfredo Imbellone

Mi trovo a scrivere in una condizione particolare: per 15 anni mi sono occupato di didattica a distanza in centri di ricerca universitari, fino a essere assunto nel 2015 come professore di matematica al liceo.

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Quando sbarcai a scuola cinque anni or sono, ero piuttosto disorientato, anche un po’ timoroso di avere a che fare con adolescenti di cui si sentiva sempre parlare male.

Assunsi subito l’incarico di Animatore digitale, un po’ per mettere a disposizione della scuola le mie competenze pregresse, un po’ per farmi ben volere, dato che nessun altro docente nella mia scuola voleva ricoprire quel ruolo di nuova istituzione.

Da subito quindi mi trovai a dover affrontare da un lato la didattica in presenza con gli alunni, dall’altro l’introduzione delle nuove tecnologie a scuola secondo il Piano Nazionale per la Scuola Digitale.

Sulla didattica in presenza dovetti rivedere molte delle mie opinioni. Ero stato fino ad allora abituato a tenere corsi universitari, spesso dovendomi preparare prima di andare in aula perché su argomenti che si allontanavano dalle mie conoscenze specifiche. Gli anni di insegnamento universitario erano stati innanzitutto una sfida sul piano dei contenuti disciplinari, con studio, ricerca, aggiornamento, preparazione delle lezioni.

Da principio credetti di dover trasferire lo stesso metodo nelle lezioni a scuola, anche perché, sebbene idoneo al concorso, la matematica non la studiavo da oltre vent’anni, quella scolastica poi da ancor più tempo, una ripassatina non guastava per evitare figuracce con gli studenti.

Ben presto mi resi conto di quanto queste mie preoccupazioni fossero del tutto fuori luogo. A scuola, scoprii con sempre più evidenza, quel che conta in primis è il rapporto con gli alunni. La didattica in presenza scolastica è fondamentalmente una questione di relazione. La materia insegnata viene quasi in secondo piano, o meglio, senza essere riusciti prima a stabilire una relazione significativa con la classe, non c’è preparazione sui contenuti che tenga.

Le ragazze e i ragazzi chiedono innanzitutto di entrare in rapporto col docente. Solo allora si può iniziare a parlare di argomenti di studio. Con la matematica poi – e in licei non scientifici come quelli dove mi trovavo a insegnare – questo discorso vale ancor di più. Se non conquisti la fiducia e la stima a livello relazionale, non hai speranza neanche di proporre le operazioni elementari.

Ok, mi sono detto. Questo serve e su questo misurerò le mie capacità. Entrare in sintonia con gruppi di adolescenti non è stato subito semplice. Ho rischiato, lo confesso, di lasciarmi trascinare da loro in un processo infantilizzante, laddove invece quello di cui i ragazzi e le ragazze vanno in cerca è una persona adulta, un riferimento su cui poter contare, che li comprenda sì, che sappia intercettarne i gusti e le passioni anche, ma che sia un adulto, non un giovane avanti con gli anni.

Ed è stato bellissimo, continua a essere bellissimo, un’esperienza alla quale mai e poi mai rinuncerei. Andare in classe mi dà energia, vitalità, risolleva anche le giornate negative. Al punto che le vacanze estive sono sempre motivo di mancanza e quando arriva settembre fremo dalla voglia di poterli rincontrare e conoscere classi nuove.

Parallelamente c’è stata da portare avanti la questione dell’Animatore digitale. Su quello ho trovato una situazione disastrosa a scuola. Sarà che venivo da ambiti universitari fortemente innovativi, ma giungendo a scuola mi sembrava di affrontare le disperanti sessioni di spiegazione a mia madre su come si usa il computer o il telefono, sempre le stesse spiegazioni, gli stessi problemi, le soluzioni destinate a durare un giorno, perché tanto poi si doveva ricominciare da capo.

Mentre cercavo di barcamenarmi nel dramma delle tecnologie per la scuola, dovevo anche frequentare i corsi di aggiornamento previsti dal Piano Nazionale per la Scuola Digitale in cui sentivo ripropormi i soliti percorsi di project management che io stesso avevo propinato per anni in corsi di formazione. Se già erano stati abbastanza fuori luogo quelli tenuti a mio tempo come docente (il project management come prezzemolo messo in ogni percorso formativo), suonavano addirittura assurdi questi che mi trovavo a dover frequentare come docente di scuola. Project management de che? Ma lo sapete in che condizioni versa la scuola pubblica? Si deve forse progettare il suo disfacimento nella forma dell’autorganizzazione smart dei docenti in assenza di risorse, tempi e strumenti?

Giorno dopo giorno mi rendevo sempre più conto che l’introduzione delle tecnologie a scuola non perseguiva il fine dichiarato di innovare l’istituzione scolastica, bensì, al contrario, di poterne gestire il processo di definitivo smantellamento. Figure docenti come cliccatori di pulsanti e tastiere, compilatori di schemi e tabelle.

Da persona generalmente entusiasta nei confronti della tecnologica, le politiche di innovazione scolastiche sono riuscite a far crescere in me uno spirito luddista e unabomberiano.

Difficile riconoscerlo dall’esterno, io stesso non ci avrei creduto prima di metterci piede, ma a scuola la tecnologia è una clava brandita contro i docenti, lo strumento principe della burocratizzazione che soffoca la scuola attuale e con simili premesse strutturali difficilmente la si riesce a sfruttare nelle pur tante e innegabili applicazioni positive che potrebbe avere in campo didattico e comunicativo.

Diciamo che per riconquistare un buon rapporto con la tecnologia in ambito scolastico mi ci è voluto del tempo e la ferrea disciplina di farne un uso al di fuori di quelli che sono i percorsi istituzionalmente indicati. Al diavolo le LIM, i registri elettronici, le prove INVALSI al computer, i mille questionari online; viva le tanto vituperate chat con gli studenti e i programmi proibiti per risolvere le espressioni matematiche!

Poi nel 2020 è arrivato il COVID e inaspettatamente i due mondi che per me sembravano rappresentare le polarità opposte di una vita, il prima e il dopo di un percorso professionale, si sono uniti. Avrei di nuovo avuto a che fare con la didattica a distanza.

Da principio è stato un inferno. Parlo dei primi giorni di chiusura delle scuole a marzo 2020. Nel giro di due settimane si è trattato di tirare su l’intera infrastruttura per la didattica a distanza per la mia scuola. Io per la verità avevo provato in precedenza a introdurre Moodle, era andata anche bene con alcuni docenti, ma dopo il primo anno la scuola non aveva voluto rinnovare l’hosting e Moodle era morta lì. Sull’onda dell’emergenza COVID, inutile dirlo, la scuola ha ripiegato su Google e non ho potuto che assecondare il processo, pur detestando la scelta. Anzi, altro che assecondare, ho dovuto passare le nottate a tirare su l’architettura delle classi e utenze scolastiche per poter partire al più presto con la didattica a distanza.

Nel frattempo sentivo i proclami di Azzolina sulle magnifiche sorti e progressive della didattica a distanza e dentro di me pensavo: “ma saprà di cosa sta parlando? È la solita propaganda della tecnologia a scuola, dove il veleno viene spacciato per medicina? Dovremmo essere pure contenti di aver consegnato la scuola in mano a Google? No, dico: la scuola pubblica a Google, ci rendiamo conto!?”

Poi è iniziata a montare la campagna No-DAD e lì ho iniziato a innervosirmi. Sentire parlare male della didattica a distanza docenti che avevo la certezza fossero i campioni della peggior didattica in presenza, caricature e stereotipi del fancazzista che sa solo dire di no a ogni nuova richiesta.

Dall’avere il dente avvelenato con Google e Azzolina, sono passato ad avvelenarmi anche il fegato con i No-DAD e difensori della scuola in presenza a prescindere. “A prescindere da che? “ mi chiedevo, “dallo schifo di scuola in presenza che stai reclamando?”. Insomma ce l’avevo con tutti.

Al solito le uniche persone con cui ero in sintonia erano gli studenti. Costretti prima a passare interminabili ore dietro i banchi a sentire noiose lezioni in attesa della campanella o del salvifico permesso di andare in bagno; relegati adesso per ore dietro un monitor, forse con qualche via d’uscita in più, qualche stratagemma alla loro portata per eludere il controllo ‘professoresco’, ma insomma pur sempre chiamati a fare corsi a distanza rispetto ai quali in 15 anni di carriera non avevo memoria di niente di neanche lontanamente paragonabile: centinaia di ore di videoconferenza! Pazzesco!

Sì, è semplicemente scandaloso che nessuno abbia denunciato che gli studenti di scuola siano stati costretti in questo anno a subire la più massiccia dose di didattica a distanza che l’umanità abbia mai sinora affrontato. Da marzo a giugno 2020 circa 500 ore di didattica a distanza. Non ho mai sentito niente di simile, roba da far impallidire il catalogo di Coursera. Forse è il fatto che tanto li si considera già asserviti alla scuola in presenza, poco cambia se debbano frequentare a distanza vista la situazione...

Poi finalmente è finito l’anno scolastico. La pandemia ci ha concesso una tregua. Si sono potuti svolgere gli esami di maturità in presenza: una vera boccata d’aria fresca, nonostante il caldo e le mascherine con cui li abbiamo affrontati. Viva la faccia di poter rivedere da vicino gli studenti, dare loro una gomitata di addio dopo cinque anni, un commiato, se non proprio degno, almeno simbolico per la fine della loro carriera scolastica.

Ed ecco che a settembre ha ripreso la scuola in presenza. Dopo un’estate di speranze e timori legati al COVID.

Devo dire che per la prima volta da quando insegno quella gran voglia di ricominciare le lezioni era venuta meno. La curiosità di conoscere le nuove classi c’era, ma insomma tutta la storia delle mascherine, del metro di distanza, le rime buccali, regole di sicurezza, termoscanner, amuchina e ammennicoli vari...

In effetti la didattica in presenza è stata da subito monca con quest’anno scolastico. All’inizio poi ero insofferente con le tante regole imposte. La scuola si era ulteriormente appesantita di misure disciplinari, come se non bastassero quelle già in vigore. Appena potevo mi abbassavo la mascherina per respirare e parlare meglio agli studenti. Non riuscivo proprio a evitare la vicinanza, lo scambio di fogli, anche il contatto talvolta.

Solo che a ottobre le cose sono iniziate a cambiare. A scuola si sono avute le prime notizie di contagi e i dati in Italia parlavano di una ripresa della curva epidemica. Quello che prima era apparso come un fenomeno limitato alle regioni del Nord adesso si presentava a tu per tu.

Ricordo benissimo la mia prima studentessa positiva al COVID. Quando ti arriva la notizia dapprima ti preoccupi per lei, pensi “oddio, che le succederà?”, sorgono pensieri assurdi su di una persona che mai avresti pensato potesse correre quei rischi, poi provi a rammentare quando la avevi incontrata l’ultima volta, ti eri avvicinato? avevi la mascherina? lei ce l’aveva? E i ricordi fanno fatica, sono poco precisi, d’altronde con almeno un centinaio di studenti, sarebbe difficile altrimenti.

Dopo il primo caso di positività l’atteggiamento cambia. L’insofferenza per le regole diventa paura, avvertimento del rischio. La mascherina sempre alzata, i contatti evitati, le distanze mantenute.

E poi il tampone, e l’attesa e il responso. E poi ancora un caso e un altro ancora. E oltre ai casi positivi, quelli in quarantena, gli studenti con cui ti devi collegare dal computer di classe mentre se ne stanno chiusi nelle loro camerette con un familiare positivo.

Fino a che perdi il conto di quanti studenti positivi hai avuto e quanti altri ce ne sono nella tua scuola. Anche perché tutte le notizie sono frutto di passaparola. La scuola si guarda bene dal fornirti informazioni. Dicono sia il rispetto della privacy. Di fatto vai a scuola senza sapere quanti contagi ci siano nell’istituto.

E nel frattempo Azzolina dichiara a piè sospinto “le scuole sono un posto sicuro”, Miozzo le dà man forte e dentro di te pensi “boh, forse la mia scuola è un’eccezione, ma proprio sicura non mi pare!”

Intanto i giorni passano, i casi si moltiplicano e il sistema di tracciamento va in tilt. A quel punto capisci che no, non è la tua scuola a rappresentare un’eccezione. Capita che alla quarta o quinta alunna positiva, la ASL impieghi dieci giorni per mandare la classe in quarantena e nel frattempo tu debba continuare a fare lezione con quegli alunni che sono stati a contatto con il virus. Altro che didattica in presenza, sembra un gioco al massacro, una gara a chi resiste senza essere contagiato.

Nel frattempo si deve ricorrere alla didattica mista per tutti quegli studenti che devono restare a casa perché positivi o in quarantena. Ecco, se è possibile trovare qualcosa di peggio della didattica a distanza scolastica o della didattica in presenza all’epoca del COVID, quel qualcosa, il peggio in assoluto, è la didattica mista. Come i proverbiali due piccioni con una fava, la didattica mista riesce a inficiare nel contempo sia ciò che si fa in aula, sia quello che si trasmette a distanza, una vera accozzaglia di difetti: se presti attenzione alla parte di classe in presenza, quella a distanza viene sacrificata e viceversa, praticamente impossibile sfuggire a questo perverso meccanismo.

Ecco quindi che arriviamo a fine ottobre. Esce il DPCM che stabilisce la scuola in presenza a percentuali. Per evitare come la peste la didattica mista si decide di raggiungere le percentuali di presenza previste con la turnazione di classi intere. Costretti ad orari scolastici che manco un burocrate sovietico sotto LSD avrebbe potuto concepire partiamo col doppio regime: alcune classi in presenza, altre a distanza.

È comunque un impazzimento perché la presenza ai tempi del COVID fa lo schifo di cui sopra, quella a distanza fatta con le apparecchiature scolastiche è un succedersi tragicomico di computer che non funzionano tra programmi, microfoni, videocamere e connessioni che non vanno, cavi rotti o mancanti.

La situazione è talmente disperante che arriva come un’ancora di salvezza l’ordinanza regionale che stabilisce l’andata a distanza al 100%. Almeno non si deve impazzire tra mascherine e lezioni in presenza ai limiti della tortura per chi le fa e le subisce e didattica a distanza fatta da scuola che rasenta il ridicolo.

Ben presto però il sollievo cede il passo alla pesantezza della nuova situazione. La seconda ondata di DAD, infatti, mostra da subito aspetti diversi dalla prima improvvisata ed emergenziale che c’era stata in primavera, purtroppo quasi sempre in peggio.

Laddove nello scorso anno scolastico ci si era organizzati così come si poteva, con continui aggiustamenti e cambiamenti di regole che lasciavano spiazzati: assenze sì/assenze no, voti sì/voti no, ogni settimana le cose cambiavano nella prospettiva che si sarebbe tornati da un momento all’altro in presenza, salvo poi concludere l’anno a distanza; stavolta si partiva con la piattaforma già pronta (sempre la stramaledetta Google suite for education visto che il ministero si è guardato bene nei sette mesi trascorsi dal proporre una sua piattaforma, cioè, in realtà, si è guardato bene dal fare alcunché, oltre le dichiarazioni di principio sulla cosiddetta Didattica Digitale Integrata che avrebbe dovuto rimpiazzare la DAD, lasciando di fatto tutto a carico delle scuole e dei singoli docenti) e soprattutto si ripartiva con docenti e studenti che già avevano fatto esperienza di didattica distanza.

Un bene verrebbe da pensare: poter contare su un precedente che non facesse partire da zero. Neanche per idea! La prima ondata di DAD nella maggior parte dei casi è stata la peggior premessa per la seconda. Innanzitutto da parte dei docenti. Se è vero che molti di loro avevano raggiunto le basi per poter svolgere la DAD, il problema è stato che la prima ondata è stata vissuta dai docenti di scuola come un’onta, uno svilimento del loro ruolo, una presa in giro orchestrata ai loro danni. In particolare a molti non è andata giù l’indicazione del “tutti promossi” che era giunta dal ministero nello scorso anno scolastico e il solo pensiero che la seconda ondata potesse richiamare una simile situazione ha portato a un incattivimento che ha caratterizzato la seconda ondata.

Ecco quindi che a novembre si è partiti con durate assurde delle videolezioni, fino a sei ore consecutive al giorno, perché guai a levare anche solo un quarto d’ora di lezione, mica ci facciamo fregare di nuovo! E così ad oggi l’esperimento sociale del più grande corso di formazione a distanza della storia continua con oltre 200 (duecento!) ore di videoconferenza da novembre a gennaio. Didattica asincrona? Per carità, è una forma di indulto mascherato, un modo per far imboscare gli studenti. E giù voti a più non posso, perché anche in questo caso, non sia mai che ci si levi di nuovo la possibilità di valutare (e bocciare).

Tra gli studenti anche vi è stato chi ha interpretato la messa a distanza come una sostanziale pausa della scuola. Purtroppo da questo punto di vista il cronicizzarsi della scuola a distanza sta avendo effetti deleteri su una parte di popolazione studentesca, quella più fragile dal punto di vista della motivazione e del rendimento. È innegabile che il risentimento dei docenti nei confronti del “tutti promossi” dello scorso anno trovi un riscontro in quella percentuale di studenti, piccola ma gravemente esistente, che si sono approfittati della situazione per mantenere un forte disimpegno nello studio.

Ecco poi che con il DPCM di inizi dicembre Azzolina fa il grande annuncio di ritorno in presenza dopo le vacanze natalizie. Possibile annunciare con oltre un mese di anticipo e a pandemia in pieno corso il ritorno in presenza? Azzolina l’ha fatto e Miozzo le ha dato man forte. Sembra una cosa seria. Tutti ci credono. Molti docenti si preparano a schierare l’artiglieria pesante: un gennaio in presenza costellato di compiti in classe e verifiche, credevate forse di salvarvi?

Intanto a scuola arrivano i famigerati banchi monoposto. A dicembre (dovevano arrivare prima dell’inizio dell’anno scolastico), in una scuola frequentata solo dagli studenti con bisogni educativi speciali per i quali è sempre continuata la didattica in presenza. I banchi con le rotelle, quelli costati uno sproposito, erano già arrivati a ottobre, per fortuna pochissimi nella mia scuola, subito ritirati dalle aule per stoppare le gare nei corridoi e accatastati in biblioteca per fare meno danni possibile.

Recandomi a lezione per i ragazzi BES delle mie classi mi si è stretto il cuore a vedere i vecchi banchi buttati nel cortile di scuola. Banchi in perfette condizioni messi così in attesa di essere rottamati. Qualcuno ne risponderà mai di questo obbrobrio? Al loro posto asettici e grigi banchi monoposto che sono poi stati disposti nelle aule, uno accanto all’altro, attaccati tra loro, con le stesse identiche distanze di seduta che c’erano in precedenza. Ripeto: qualcuno ne risponderà mai di questo obbrobrio?

Poi arriviamo alla storia di questi giorni. Dopo il lockdown natalizio le condizioni non sembrano essere cambiate nel senso auspicato dai fautori del ritorno in presenza: i contagi sono ancora lì che non accennano a scomparire, i trasporti sono ancora quelli di prima, sebbene dicano che saranno potenziati, i vaccini, se siamo fortunati, si riusciranno a fare poco prima della fine dell’anno scolastico.

Ecco allora che si succedono con ritmo frenetico piani di rientro uno più assurdo dell’altro: percentuali di presenza che oscillano da un giorno all’altro manco fossero l’indice NASDAQ, orari scolastici da far invidia ai collegi e rimpiangere i doppi turni di una volta. Non si fa in tempo a pubblicare una circolare che esponga le assurdità di un piano che subito ne subentra un’altra che stravolge la precedente e tocca nuovi picchi dell’assurdo.

Le scuole nel panico, i sindacati nel pallone, studenti e famiglie disorientate che a distanza di 48 ore dalla data annunciata da Azzolina ancora non sanno se ci sarà effettivamente questa scuola in presenza, da che ora a che ora, in che giorni...

Tra i professori serpeggia un forte malcontento. Anche i più riluttanti nei confronti della DAD convengono che tornare in queste condizioni sia irresponsabile. Si moltiplicano appelli, comunicati, chat bollenti per gli scambi di messaggi, raccolte di firme.

Il consiglio dei ministri decide il rinvio di quattro giorni. Azzolina protesta. Nessuno è soddisfatto perché quattro giorni sono meglio di niente, ma davvero non cambiano le cose. Così intervengono le Regioni decidendo un ulteriore rinvio, chi più lungo chi meno. Azzolina riprotesta.

Poi è il turno degli studenti. Chiedono di tornare a scuola in sicurezza. Azzolina ha un guizzo: dice che la loro lotta è la sua lotta, che la DAD non funziona e bisogna tornare a scuola (per lei d’altronde è sempre stato un posto sicuro). Grande editoria e Confindustria sono della stessa opinione: scuola in presenza a ogni costo (e forse anche di sera, a luglio e ad agosto, tanto per fare rima). Con loro molte famiglie esasperate da mesi di didattica a distanza.

Siamo davvero arrivati all’oggi. Sembra ormai chiaro che, a meno di inopinati peggioramenti nei dati epidemiologici, si tornerà presto in presenza.

Che ne penso? Perché ho scritto sin qui?

Credo che la scuola in presenza che ci aspetta sia una pessima scuola in presenza. Tra l'altro nella peggiore delle sue versioni: la didattica mista. Vorrei poter dire che la didattica a distanza sia meglio di questa scuola in presenza alla quale ci accingiamo a tornare, ma non posso: anche la didattica distanza che si fa a scuola è una pessima didattica a distanza. Ci saranno eccezioni in un caso e nell’altro, ma davvero il livello generale della scuola in presenza e di quella a distanza ai tempi del COVID è roba da mettersi le mani nei capelli.

Poteva essere altrimenti? Credo di sì, almeno per quanto riguarda la didattica a distanza si sarebbero potute fare molte più cose da parte del ministero, mentre non si è fatto praticamente nulla.

Eppure non siamo all’anno zero della didattica a distanza. Nei 15 anni che ci ho lavorato prima di sbarcare a scuola ho avuto modo di apprezzare modelli e metodologie interessanti. Non ne ero un entusiasta sostenitore, ma, soprattutto se utilizzata in modalità blended, con percorsi che integrino distanza e presenza, ho imparato a riconoscerne la validità.

Il problema mi sembra sia stato come la didattica a distanza è stata declinata in ambito scolastico e in periodo emergenziale, un abbraccio mortale che ha partorito la DAD (sigla mai sentita in anni di carriera nel settore). La DAD fa schifo, punto. La didattica a distanza è un’altra cosa.

Anche sulla didattica in presenza emergenziale si sarebbe potuto lavorare meglio. Innanzitutto garantendo davvero la sicurezza, senza nascondersi dietro il mantra "le scuole sono un posto sicuro" e poi facendo scelte coraggiose a livello scolastico, superando i dogmi del gruppo classe, delle mura dell'aula, dei voti a ogni costo, della valutazione individuale.

Numerose proposte in tal senso sono state avanzate da più voci, alcune lodevoli iniziative sono state anche prese a livello di singola scuola o docente, ma è mancata una politica scolastica all'altezza delle sfide poste dalla pandemia.

D'altronde la scuola sconta da anni una fatica a riformarsi nel senso vero del termine. I periodici interventi di riforma sembrano essere tutti andati nella direzione di un suo ridimensionamento svalutativo all'interno della società. E tutti sono caratterizzati da un'impronta autoritaria, imponendo il cambiamento dall'alto, senza tenere in considerazione i soggetti non cooptati nella catena di comando e che mantengono in vita l'istituzione scolastica pubblica, faticosamente la mandano avanti giorno dopo giorno (studenti, docenti, personale ATA). Un piglio decisionista che dal livello ministeriale si trasmette alle dirigenze e team scolastici, in quella strutturazione manageriale portata dall'autonomia che fa acqua da tutte le parti.

In periodo di COVID questa tendenza è stata ulteriormente esacerbata, accompagnata da una pletora di commissioni di esperti, comitati di saggi e compagnia cantante che altro non hanno fatto che confermare la natura verticistica della gestione scolastica, acuendo le differenze tra scuole e svuotandone oltre ogni misura al loro interno i meccanismi di gestione democratica e partecipativa.

Voglio tornare in presenza? No, non in queste condizioni, sia perché non lo ritengo sicuro dal punto di vista dei contagi, ho paura lo ammetto, sia perché detesto la didattica in presenza in regime di COVID e la didattica mista mi dà il voltastomaco.

È servito a qualcosa scrivere queste righe? Sì, è servito a me per mettere giù di getto quanto vissuto in questi mesi e riflettere su questi anni tra didattica a distanza e didattica in presenza.

Chissà poi se qualcuno non si riconosca in talune cose che ho scritto?

Chissà se Azzolina protesta?

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Alfredo Imbellone

Alfredo Imbellone

 

Docente di Matematica presso IIS Giosuè Carducci

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